DanielDayLewis

Di Firenze è facile innamorarsi: i suoi lungarni dorati al tramonto, gli scorci mozzafiato da Boboli o da piazzale Michelangelo. Dalla immortale tradizione artistica che qui è nata e ha fatto scuola a tutto il mondo, fino alle contaminazioni più contemporanee che vibrano in un centro storico sempre più creativo e internazionale, neppure le star di Hollywood sembrano immuni al fascino del capoluogo toscano. E dal red carpet alle botteghe d’Oltrarno, il passo è breve!

Tra le innumerevoli storie che legano il Cinema – quello con la C maiuscola – alla nostra città, quella più singolare è indubbiamente quella di Daniel Day-Lewis, che da divo da Oscar si è calato nei panni (per una volta, non cinematografici) del ciabattino nella bottega di Stefano Bemer, eccellenza nell’universo shoes famosa in tutto il mondo per raffinatezza nei modelli e qualità della materia prima.

Il divo irlandese, l’unico al mondo ad essersi aggiudicato tre premi Oscar come miglior attore, ha trascorso ben 10 mesi come “stagista” nel laboratorio in San Frediano, situato nel cuore della città in un’antica chiesa del 1439, nella Firenze più autentica, quella degli artigiani e dei rigattieri, degli antiquari e delle piccole botteghe.

La vicenda è curiosa e ha fatto discutere la stampa di tutto il mondo: il protagonista di capolavori come “L’ultimo dei Mohicani” di Michael Mann e “L’età dell’innocenza” di Martin Scorsese si è prestato come artigiano per quasi un anno tra il 1999 e il 2000 a titolo gratuito. Galeotto fu un paio di stivali in pelle, appartenuti al padre e a cui l’attore era particolarmente legato. Proprio per riparare gli stivali, Day-Lewis si rivolse al calzolaio fiorentino, casa fondata nel 1983 con l’unica ambizione di “creare la scarpa italiana perfetta”. In quella bottega, la bizzarra richiesta: “posso lavorare da voi?”.

Del lavoro artigiano lo colpì la precisione, la tecnica e la totale dedizione, attitudini a lui particolarmente congeniali. Daniel Day-Lewis è noto, infatti, per essere un professionista meticoloso, puntuale, a tratti ossessivo, celebre per “Il Metodo”, l’acting method che lo ha fatto calare anima e corpo nei ruoli che ha interpretato: dalle settimane trascorse in sedia a rotelle per cimentarsi con la paralisi per “Il mio piede sinistro” di Jim Sheridan che gli è valso il primo Oscar, ai giorni trascorsi in cella d’isolamento senza sonno e senza cibo per incamerare la rabbia e l’alienazione di Gerry Conlon, il protagonista de “Nel nome del padre” sempre di Sheridan. Fino al training da macellaio, tra carcasse e mannaie, per conferire una inaudita ferocia a Bill The Butcher in “Gangs of New York” di Scorsese, ruolo che lo strapperà dal suo rifugio fiorentino.

Dopo mesi di lavoro nella bottega di Bemer per sfuggire alla frenesia dello showbiz, sarà proprio l’offerta di Scorsese a convincerlo a ritornare sulle scene. Sicuramente un dispiacere per i vicini di casa toscani, ma una fortuna per il grande schermo, considerato che tra il 2008 e il 2013, si aggiudica altri due Oscar con “Il petroliere” e “Lincoln”, regalandoci alcuni tra i ritratti cinematografici più straordinari di sempre.